Era il 1993, un non troppo conosciuto politico verde aveva provato a diventare sindaco.
All'epoca il sindaco non si eleggeva, e Roma aveva un'agonizzante giunta guidata da Carraro (Federcalcio, lui). Un gruppo di consiglieri dei partiti di sinistra propone Rutelli come sindaco, pare si possa fare, ma tutto frana, la prima Repubblica è ancora forte.
Cambia la legge e si va a votare, sembrano secoli, Milano è ancora frastornata da Tangentopoli, Fini è il segretario del Movimento Sociale, Berlusconi un imprenditore che si impiccia dell'elezione del sindaco.
Rutelli guida una coalizione che non sa di doversi chiamare Ulivo, i talk show televisivi intervistano i contendenti due volte al giorno, c'è anche l'oscuro democristiano Caruso, che in un'intervista dichiara di essere "sia della Roma che della Lazio".
Non sembra ci sia altra città e altra democrazia, tutto si decide qui.
Al primo turno è il panico, exit poll che danno Fini in testa, ma il ballottaggio ci sarà di sicuro.
Invece Rutelli è davanti, ma di poco.
Secondo turno, i votanti sono addirittura di più, caso unico nella storia del doppio turno italiano.
Rutelli vince benino (52,5), Fini concede all'americana subito dopo la chiusura dei seggi.
Qualcosa è cambiato, le borgate sono in mano alla destra, per mesi girerà gente con magliette con scritto "Rutelli non è il mio sindaco".
Ispirato da Parigi, star delle telecamere e mecenate di opere griffate e inutili (come l'Ara Pacis di Meyer), e in questo completamente diverso dal suo successore Veltroni, concreto e americaneggiante.
Lascia a Roma due cose fondamentali, il numero incredibile di parchi sterminati (14000 ettari), e l'integrazione di tutti i mezzi pubblici, che prima di lui erano divisi in due aziende, e per prendere la metro e l'autobus servivano due abbonamenti diversi.
Più recuperatore che costruttore, qualche iniziativa strampalata (come la piazza intitolata al fascista Bottai, che poi non si fece, o il sottopasso di Castel S. Angelo), ottime amicizie nei salotti dorati della capitale e Oltretevere.
Comincia a fare il politico nazionale quando al Gay Pride decide di togliere le insegne della città dal corteo, impapocchiando diatribe sul percorso, dimenticandosi però di dire perché le avesse concesse.
Successore telefonato di Prodi, carente però dal punto di vista tecnico, va a farsi randellare dal bandanato cosciente della sconfitta, sacrificato dai leader del centrosinistra.
Delira sulla legge 40, ma questo lo scrivo in un altro articolo.
04 giugno 2005
Francesco
Scritto da Numero 6 alle 00:07
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