Ci sono rari casi in cui mi trovo ad avere una mattina libera, e ne approfitto per osservare quell'umanità di cui altrimenti non saprei nulla.
In particolare, bambini a scuola e genitori, visti rapportandoli a quando l'accompagnato ero io.
E una delle differenze, quella per me più vistosa, è la presenza di bambini figli di stranieri.
Quello che mi colpisce, e onestamente mi mette un incredibile tristezza, è vedere i bambini scolarizzati in Italia che parlano con i loro genitori immigrati.
All'irrefrenabile chiacchiera dei piccoli in buon italiano, fa da contraltare il balbettante idioma nazionale dei padri e delle madri.
Fosse solo così sembrerebbe una scena da film comico, ma la verità è che il genitore non ha idea, o ce l'ha in modo molto approssimativo, di cosa stia dicendo suo figlio.
Così, tra i noti ed elencabili drammi che l'immigrazione porta con sé, c'è questo che ha più l'aspetto di una maledizione: il padre non comprenderà il figlio.
Certo, potrebbero educarli bilingue, ma la cosa non è esente da qualche critica da parte della psicologia dell'apprendimento, e poi, trattandosi spesso di povera gente, non è detto che abbia gli strumenti adatti a insegnare persino la propria, di lingua.
Non capirò mai chi, in maniera plateale o criptica, considera la parola immigrazione in modo negativo.
È invece qualcosa che fa parte non scindibile dell'uomo, e anzi, ne dice qualcosa di più.
Perché migrare è far prevalere sulla nascita il diritto alla qualità della vita, è l'unica misura vera di quanto quel che hai ti soddisfi.
Dalla notte dei tempi della razza umana, e forse non solo di quella, si va via da dove si sta male e si resta dove si sta bene.
Che sia il sicilano che va in Piemonte, il tutsi ruandese che va in Congo, il rumeno in Italia o il turco in Germania, il suo spostamento è l'unico metro credibile, molto di più delle classifiche sceme del Sole 24 Ore che mi dicono che dovrei andare a Siena o a Belluno perché gli autobus arrivano in orario e ci sono le piste ciclabili.
Ma ci andassero loro a vivere a Belluno.
Io non voglio vedere un noioso popolo di fotocopie bianche, cattoliche e familiste, non voglio quattro regioncine con i confini tracciati a vanvera dal Duce nel 1927 che credono di essere la Virginia o la Baviera.
Voglio il presidente con il nome kenyano e anche quello con il nome ungherese.
Voglio i chioschetti dei nordafricani che fanno le crêpes tutta la notte come a Parigi, voglio le deviazioni degli autobus per il Vaisakhi come a Londra.
Voglio attrici cattoliche con il nome portoghese che però sono indiane, come Freida Pinto.
Prendete il libro di storia che avete buttato in soffitta, e rileggetevi che gli stati più importanti della storia, quelli che l'hanno segnata, erano largamente multirazziali.
L'impero romano, austriaco, mongolo, gli Stati Uniti, l'Unione Sovietica, avevano o hanno più razze in circolazione di quante se ne potrebberto scrivere, e a tutti i livelli della società.
Io voglio vivere in un posto di cui venga imitata la cucina, la musica, la forma di stato, il codice della strada, il campionato di calcio e pure i template dei blog.
Non nella subalternità a chi ha capito che sommare popoli è meglio che sottrarne.
Non nella versione peninsulare dell'Islanda.
07 gennaio 2009
Mestizaje
Scritto da Numero 6 alle 09:31
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Forse il miglior post da quando ho iniziato a leggerti!
RispondiEliminaTolgo il forse, se il mio consulente me lo consente...
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