27 maggio 2005

L'Africa cinese

Lunedì dovevo andare da una mia amica, ma non mi andava di ripassare a casa.
Inoltre, mi era venuta voglia di mangiare cinese, quindi parto per il quartiere Africano, dove c'è una rosticceria, più che altro perché è l'unica che conosco.

Il quartiere Africano non si chiama così, si chiama Trieste, ma non ce lo chiama nessuno.
Il nome deriva dal fatto che le strade hanno nomi di città coloniali (come via Giarabub o via Makallè).

Lo conosco a memoria perché è il quartiere natale di mio padre (e di qualcun altro)

È un posto oggi molto chic, ma non è sempre stato così.
Fino a prima della guerra era costruita solo la parte verso la Salaria, mentre l'asse del quartiere, viale Libia, era solo una prateria verso l'Aniene.
Dalle finestre di casa sua mio padre poteva vedere Città Giardino e l'aeroporto dell'Urbe.

Mi metto a passeggiare, anche se come posto non mi fa impazzire.
È urbanisticamente vecchio, le strade sono strette, i palazzi alti, ha una vocazione commerciale altissima che provoca ovviamente doppie file e parcheggi atroci.
Oltretutto, come tutti i posti per benestanti, è un quartiere di vecchi, di quelli con le signore con la sporta e i negozianti che ti aspettano sulla porta e ti salutano, intervallati da toilette per cani e agenzie immobiliari.
La passeggiata mi fa passare davanti all'ingresso del rifugio dove la sirena chiamava i residenti, quando gli Spitfire inglesi decidevano di prendersi l'aeroporto in mano tedesca (che mio padre mi avrà raccontato un migliaio di volte), e poi al parco Nemorense (che si chiama Virgiliano, ma non ce lo chiama nessuno), microscopico e silenzioso pezzo di verde che i residenti descrivono come Central Park.

La sostituzione degli appartamenti liberi non avviene con giovani italiani, ma con immigrati, tratto comune a molte vecchie zone della capitale.
Qui la fanno da padrone cinesi e nordafricani, con il loro strambo idioma fatto di dialetto con calata nazionale.

L'orario della cena è da cispadani, ma ho un po' di fretta, entro nella rosticceria, e come sempre quando sono davanti a un menu cinese mi viene voglia di ordinare tutto.
Signora non si cucina più come una volta, e il posto di otto metri quadri è gremito di gente di svariate nazionalità.
Entra una ragazza che comincia a ordinare, ripetendo quello che il marito gli urla dalla strada mentre scorrazza il pargolo.
La cinese risponde distintamente: "Mó alliva".

8 commenti:

  1. "Mò alliva": il melting pot nostrano.
    Fantastico :-D
    Brain

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  2. Ma sbaglio o la cucina cinese è tutta omologata, tutta uguale in assoluto in qualunque parte d'italia si vada?
    Non mi dispiace come cucina, ma qualche dubbio mi viene.

    lele

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  3. Esattamente come quella italiana all'estero.

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  4. Non scherziamo: sono stato in svezia, in grecia, in francia, in spagna ed in ogni paese la cucina italiana era variegata.

    Una volta lessi che quelli cinesi sono quasi tutti cibi precotti o essiccati che vengono smistati in tutta italia.

    lele

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  5. Mica scherzo.
    La cucina italiana all'estero ha sempre le stesse quattro stronzate.
    Se poi vuoi andare in un posto per danarosi, ne esistono anche di cinesi, e chiaramente non ti prendi gli involtini primavera.

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  6. Ah ecco, forse sono io che sono sempre stato in posti proletari, dove si spende massimo 20-25 euro a testa;-D

    Comunque x esempio, in svezia l'anno scorso ed in provenza 5 anni fa spesi 28 euro e 33 mila lire x due cene fantastiche!
    Altro che i soliti spaghettini alla pummarola o la solita bistecca che tutto è fuorchè chianina-fiorentina!

    lele

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  7. Via Endertà angolo Viale Etiopia, e fino a qualche anno fa c'era il cinese pure lì ;-)
    Ritratto perfetto. [laragazzablu]

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  8. Del quartiere Africano una cosa mi ha conquistato totalmente, un negozio, il "Centro di Cucito Efficace" di Viale Somalia :-)

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